Empire of AI: Lettura sconsigliata

Ci si aspetterebbe che un libro sullo sviluppo dell'intelligenza artificiale nella società fosse scritto con maggiore serietà, tatto, eleganza e obiettività dal punto di vista semantico e prospettico, degni di questa tecnologia. Il libro Empire of AI: Dreams and Nightmares in Sam Altman's OpenAI non soddisfa questo requisito. Si tratta sostanzialmente dell’ennesimo libro giornalistico inutile e superficiale, pieno di impliciti appelli autoriferiti all’autorità (l’autrice si vanta di aver scritto per MIT Technology Review, The Wall Street Journal e per The Atlantic), ma dal punto di vista polemico e argomentativo non offre quasi nulla, se non un latente sfoggio di status sociale. Il libro non manca di spunti interessanti (soprattutto quelli su Sam Altman), ma risulta troppo invaso dalle esperienze personali della giornalista, con dettagli sociali di cui, onestamente, non importa niente a nessuno in un libro che dovrebbe invece affrontare apertamente una tecnologia tanto affascinante.

Il gergo utilizzato da questa giornalista per affrontare temi triti e ritriti, come "rischi esistenziali", "takeoff dell'AI" e "superamento dell'AI da parte dell'uomo", nonché il classico "scenario da apocalisse", suona banalmente e irritantemente puerile e privo di qualsiasi sobrietà. La sua scelta lessicale, già oggi infantile e caricaturale, non potrà che risultare ancora più ridicola con il passare del tempo, man mano che i limiti e le potenzialità più elevate delle reti neurali diventeranno sempre più evidenti, sia nel mondo dell’intrattenimento di massa sia in ambiti settoriali di nicchia. L’allarmismo plebeo di questo tipo purtroppo non scomparirà, e probabilmente si risolverà solo intorno al 2100, quando la politica si sarà finalmente sviluppata in modo più saldo e razionale insieme all’IA, al di là delle ideologie. Ciò non toglie, però, che tale allarmismo sia di cattivo gusto, disonesto e poco lungimirante, soprattutto in un libro destinato alla vendita.

L’autrice parla di imperi e propone una strana analogia tra l’imperialismo e l’emergere di questa tecnologia. È vero che si potrebbe interpretare questa svolta tecnologica come “napoleonica”, come suggerisce lei, ma limitarla a un paragone moralista e superficiale non è affatto adeguato. Prima di tutto, Napoleone stesso è emerso dalla rivoluzione francese. Allo stesso modo, se l’IA di massa nasce proprio in questo periodo, si potrebbe concludere che questa tecnologia sia anch’essa il prodotto di una crisi politica collettiva, si pensi, ad esempio, alla pandemia di Covid. Ma l’autrice si spinge fino a queste analogie? Assolutamente no. 

La sua analogia, però, è estremamente superficiale e quasi infantile: secondo lei, gli imperi sarebbero soltanto una forza negativa, in quanto “sequestravano e sfruttavano risorse non loro” e “proiettavano idee razziste e disumanizzanti a proprio vantaggio”. Partendo da questa premessa riduttiva, che c’entra poco con il tema dell’IA, l’autrice forza un parallelismo tra l’imperialismo storico e la tecnologia dell’intelligenza artificiale in modo del tutto contorto. In questa chiave, l'autrice critica l'estrazione dei dati disponibili online e l'impatto ecologico della tecnologia IA. 

Nel primo caso, non si tratta affatto di “rubare dati creativi o personali”: anche se i dati disponibili sono creativi, restano comunque pubblici e sottoposti a una sorta di “pressione coloniale”. L’IA, infatti, apprende tanto più quanto maggiori sono i dati ricorrenti a cui ha accesso; di conseguenza, i dati più diffusi esercitano una pressione coloniale più forte e tendono a dominare l’apprendimento. L’autrice riesce a vedere tutto questo? Ovviamente no. Preferisce invece riempire il suo libro di pettegolezzi su individui ricchi e sulle loro vicende, condito da allarmismo spacciato per intrattenimento. 

Nel secondo caso, il problema climatico è quasi ridicolo da tirare in ballo quando si parla di una tecnologia ancora in pieno sviluppo. Questa è una lamentela tipicamente giornalistica, che viene ripetuta con toni sempre più isterici e fuori fuoco. Sembra che si debba per forza parlare ossessivamente di "catastrofi climatiche globali" ogni volta che viene presentata una novità tecnologica, invece di affrontare il vero impatto della società moderna sulla salute psicosociale degli individui. È ancora più assurdo che certi interrogativi vengano sollevati in modo sproporzionato solo quando si parla di IA, mentre per altri settori si faccia finta di niente! Non si parla seriamente, per esempio, del "commercialismo fashion", che probabilmente è più dannoso per il clima 15-30 volte di più, o della natura etica all'interno di una società antiintellettuale che predilige idiozie come la fast fashion, il beauty, gli accessori e il social shopping!

La concezione dell’impero proposta dalla Hao scivola ancora di più nel grottesco quando tenta di ridicolizzare il motto di OpenAI e la sua “missione per l’umanità”, trascinando dentro la narrazione i paesi più poveri e le comunità marginalizzate, che diventano improvvisamente vittime da copertina. In realtà, OpenAI fa continuamente di tutto per rendere la tecnologia accessibile su vasta scala e favorirne la crescita: ha fatto più per le comunità marginalizzate in pochi anni che mille opinionisti e parolai messi insieme. Si sentono solo slogan stanchi come “modelli più piccoli”, “soluzioni comunitarie” o “AI etica”, ma in realtà i modelli grandi sono proprio quelli che offrono più sfumature e personalizzazione; l’IA può benissimo suggerire soluzioni comunitarie, e “AI etica” è solo una buzzword da conferenza per sembrare profondi quando non si ha nulla da dire.

La verità? OpenAI ha offerto a chiunque, povero o ricco, isolato o integrato, la possibilità di imparare un inglese corretto, o qualsiasi altra lingua, senza barriere né emarginazione. L’“impero” di cui parla la Hao esisteva molto prima, ma OpenAI ha introdotto finalmente un pizzico di meritocrazia. Hao non celebra questa transizione: preferisce screditarla con il suo libro.

Sconsiglio la lettura o l’acquisto di questo libro. L’autrice fa un uso eccessivo e anacronistico di termini come "disinformazione" o "estremismo", ignorando il fatto che viviamo ormai in un’epoca post-giornalistica, in cui le masse si mostrano sempre più scettiche verso i media tradizionali. Inoltre, applica concetti ideologici ormai svuotati di significato in un contesto storico in cui le grandi narrazioni si sono dissolte. Ne risulta una celebrazione nostalgica del mondo pre-IA, un mondo che, per molti, era piatto, caotico, privo di senso e brutalmente dominato da un prosaico giornalismo anti-artistico.

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